A belly full of wine - Romanzo

giovedì 31 marzo 2011

Moon river...and me?

Sto vivendo una situazione professionalmente complessa. Intrappolata in un momento di incertezza lavorativa, mi palleggio tra decreti attuativi, vari federalismi, entrate erariali ed altre amenità, nell’attesa di individuare una collocazione più stabile e proficua. Come immaginerete, un autentico spasso, ma non è questo il punto.

Per sopravvivere a tale incongruo stato di cose, non riuscendo davvero a trovare la chiave per tradurle in giapponese (nessun commento sulle battute auto inflitte, grazie), ho deciso di dedicarmi con concretezza e slancio alla promozione del gruppo di supporto del blog. Ebbene sì, poco dopo aver dato il via a Kaiseki Style, ed applicando alla lettera i consigli che vari smanettoni di Internet hanno ritenuto di elargirmi, ho creato un gruppo su Facebook. Ora, capita che, durante una di queste sortite creative nel social network, io abbia incautamente inserito, nella sezione dedicata all’amministratore del gruppo, il sognante pseudonimo di Luna Crescente. Sia chiaro, questo è successo alla milionesima volta che mi veniva richiesto di impostare un nome per il profilo e alla milionesima volta che mi veniva rifiutato Miss Kaiseki. L’ho fatto, chiaramente, per facezia, giusto una petite provocation…sennonchè, il social network in questione - che non è spiritoso ed elastico come uno si aspetterebbe - non ha registrato il mio stato d’animo pazzerello ma ha felicemente recepito il nome, scolpendolo a caratteri de pietra nella home page del mio profilo. E da lì, via qualsiasi autorità per modificarlo ma via anche a qualsiasi presa per i fondelli dai pochi, fortemente voluti e per questo giustamente  perseguitati, fan.

Ergo, dopo aver impiegato intere, spudorate settimane per convincere 65 cristiani ad iscriversi come supporter (anzi, chi legge e non l’ha fatto potrebbe approfittarne http://www.facebook.com/MissKaiseki) ora mi ritrovo con un nome imbarazzante come uno spinacio tra i denti e con la verve nipponica di un rave party ad Amburgo. Il tutto senza prospettive di miglioramento.

Sì, mi vergogno e sì, lo ammetto, mi sento un’incapace, ma tant’è. Bisogna inoltre aggiungere – non vi voglio tacere niente - che quando si cerca il suddetto pseudonimo su fb vengono fuori centinaia di risultati (con evidenti contraccolpi anche all’efficacia, o - al limite - all’originalità della pensata) molti dei quali accompagnati da sottotitoli accattivanti (cosa che, francamente, rischia di compromettere la mia teutonica reputazione).
Come ovviare a questo delicato inconveniente? Al momento non saprei ma sono aperta a qualunque suggerimento voi, puri di cuore, vogliate graziosamente elargirmi. Alle brutte, se il progetto iniziale del pensiero giappo (che, come avrete visto, è stato mooooolto etereo, finora) va a rotoli, posso sempre improvvisare come piano b, Kaiseki Style, ovvero tarocchi e lettura della mano per telepatia internettiana.
Non sia mai che è la volta che faccio qualche soldo!

martedì 29 marzo 2011

Climb in the back with your head in the clouds and you're gone


Il notebook è arrivato. Dopo un altro paio di tappe a Colonia e nel sud della Corea è finalmente giunto, completo di commesso UPS in calzoni marroni. Quindi, siccome il Kaiseki tendenzialmente è il tipo che un po’ la mena, mi interrogo su una vicenda secondaria ma insomma. Citofonata:
“Chi è?”
 “Miss Kaiseki?” (ovviamente mi ha chiamata per nome ma sul blog la regola dell’anonimato è ferrea)
“Sììììì?” (che poi già lo sapevo)
“È arrivato il computer!”
Al che io e lo Shōgun ci siamo messi ad esultare, nello specifico, io saltavo e dicevo “Evvaiiiii!” e lo Shōgun ha iniziato a fare un suo balletto tipico, un po’ strano, in cui sembra un orsetto che corre sul posto e con le manine in avanti dà pugnetti verso il basso: uno spettacolo, letteralmente. Il tutto davanti ai nostri ospiti: 2 compagni del nido e 2 mamme che però ormai ci conoscono e quindi non si scandalizzano.
Mr UPS, insomma, sale col nostro notebook sotto il braccio e un sorriso radioso che sembrava quello della Rivincita delle Bionde, io firmo la fantomatica ricevuta elettronica e lui smamma.
Altra deliranza, altro balletto.
Il punto su cui mi vorrei soffermare è il seguente: miss Nome-e-cognome è arrivato il Prodotto-che-ha-ordinato?! Cioè che se compravo un pezzo di capitello trafugato dal Partenone o una partita di borse firmate contrabbandate da vendere porta a porta o, dico per dire, frusta e manette, lo sanno tutti, dal magazziniere della UPS, al mio condominio a mia nonna che mi abita di fronte? E la privacy?!
Mah, il pc – pazzesco - necessitava di una borsa adeguata che lo contenesse e lo proteggesse e così ho iniziato a guardarmi intorno con accortezza. Mi imbatto, per sventura, in uno di quei negozi assurdi che vende accendini  con gli swarovski, sottobicchieri bordati di piume di struzzo e portachiavi-lucidalabbra a forma di ghiacciolo, uno di quei negozi che trovi in centro o negli aeroporti (segnale inequivocabile dell’acquirente medio) e che hanno arredi fluo e prezzi da brivido. Ebbene, la fretta è nemica dello shopping e io ho incautamente acquistato, nel succitato antro delle sòle, la mia preziosa custodia. Fucsia, rigida, con una maniglietta applicata. In ecopelle, dice il commesso.
Ecco, l’ecopelle in questione, una volta giunta a casa, ha sprigionato un odore simile a quello del petrolio. Ma nemmeno di quello appena estratto, questa cosa putrida ha impestato l’aria con un fetore di benzina andata a male e plastica bruciata. Una puzza tossica, che in confronto l’amianto sembra un olio essenziale alla lavanda. 

Una cosa talmente disgustosa che, dopo mezz’ora che stava rinchiusa nello sgabuzzino, ho dovuto aprire le finestre ovunque tanto la puzza si era diffusa. Me tapina! Sono ancora senza borsa nonostante l'elevato tasso di mobilità del mio nuovo pc, in compenso, ora dispongo di un set di sottobicchieri piumati che nemmeno un trans…

mercoledì 23 marzo 2011

There is a long way, between chaos and creation...


Forse non vi ho detto che la scorsa settimana ho comprato il sospirato notebook (quello di cui ho parlato nel primo post del blog).
Prendo un Dell, sul sito Dell (perché i Dell non si trovano nei supermercati…pare una canzone) e, nonostante il modello vanti un certo numero di cover dalle intriganti tonalità pastello, mi devo accontentare di un unico esemplare nero, perché quelli piacioni, misteriosamente, non sono disponibili.
Evvabbè, insomma compro, ad un prezzo competitivo secondo me e tralascio di ammorbarvi con i dettagli sulle caratteristiche della macchina in questione perché è una cosa da ulcera e io sono felice di esserne uscita. Tempo stimato per la consegna: 8/10 giorni lavorativi. Data prevista per la consegna, indicata nella mail che ricevo in automatico dopo aver scarrellato la carta di credito: 14 aprile.
Era l’11 marzo, voi capirete la delusione senza che io mi lasci andare ad imprecazioni poco adatte alla sede. Evvabbè, mi rassegno a questo stato di cose finché venerdì scorso arriva un’altra mail che mi avvisa che il pc è stato spedito con UPS e mi indica il riferimento per monitorare la spedizione. Ieri altra mail in cui mi avvisano che oggi consegneranno, miracolo, e solita stringa di codici per rintracciare la merce. Al che, sentendomi ormai prossima alla meta, vado sul sito UPS, digito il mio numero magico e mi appare il seguente specchietto.

Ora, non voglio ammorbarvi con una tipica polemica kaiseki ma…avete dato un’occhiata?
Analizziamolo insieme: il mio computer parte il 21 marzo dalla Cina, il 22 è a Shangai (che non sarebbe sempre Cina?), transita per Colonia per poi tornare a Shangai in serata, il 23 – cioè oggi – è prima in Corea, poi in Germania di nuovo, poi in Kazakistan. Ovviamente a casa mia non è ancora arrivato niente e mi sa tanto che stasera dovrò smontare i festoni che avevo appeso per festeggiarne l’arrivo.
La domanda è: lo specchietto è in realtà un codice CIA o UPS nasconde la merce nella valigia di uno stuart dell’Aeroflot, senza avvisarlo, con la segreta speranza che prima o poi passi per Roma?
Cioè, io ho pagato 29 euro di trasporto ma se la Dell Cina consegnava il mio pc a un pechinese disoccupato per farmelo recapitare in bici mi sa che arrivava prima!
E poi, aò, Dell, ma non dovrebbe partire da qualche posto in nord America?!

Vi aggiorno e mentre aspettiamo vi anticipo che nel frattempo ho comprato 2 piccole borse che sono la fine del mondo e appena le fotografo mi sommergerete di commenti per complimentarvi (pare vero: a proposito, ma un commento ogni tanto no? Ma qualcuno che legge c’è? A parte te, nonna, abbassa pure la mano, grazie!) e un paio di ballerine bianche e nere che però mi sa che sono state un acquisto un po’ precipitoso perché quelle si portano senza calze e, considerata la temperatura, aspetteranno parecchio prima di mettere il naso fuori dalla scarpiera.

Infine, ho messo un’altra pagina su questo blog su cui pubblico un mio racconto, andateeeeeee ^^

lunedì 21 marzo 2011

Golden slumbers


Credo di avere qualche disturbo del sonno. Non fraintendetemi, ho dormito come una pupa per quasi 30 anni ma lo Shōgun non ci si ritrova proprio, la notte, a farsi tutta una tirata e, anche adesso che siamo più cresciutelli, continua a svegliarsi intorno alle 2 e non si riaddormenta, proprio no. Badate bene, non è di cattivo umore, è vigile e anche spiritoso (se solo fossi nello stato d’animo adatto per apprezzare questo suo spirito…) solo che è sveglio e ci rimane anche per 2-3 ore e io a ruota. Insomma, mi è venuto questo disturbo del sonno (lungo 86 cm e un po’ pelato) e – siccome sono una che non regge i sacrifici e che non si dà per vinta e ho pure una certa inclinazione alla ricerca – mi concentro per individuare su google la chiave dei miei problemi.
Ora succede che, durante le mie peregrinazioni nella rete, mi sia imbattuta nella seguente prescrizione: “Kindival, 5 granuli quello normale, 7 granuli quello forte…”. Non state a cavillare sulle quantità, che ovviamente ho buttato là, il punto è che questa parolina è stata la via d’accesso allo smisurato universo di forum materni sui prodotti che agevolano il sonno dei pupi e che coprono una mostruosa gamma di principi attivi - dal bromuro alla camomilla – ed un oceanico ventaglio di fattispecie. Quindi tra accuse tipo “i bimbi non si drogano!” e testimonianze commosse “la mia vita è cambiata e pure quella del nano” ho cercato di individuare una soluzione a questa situazione che, confesso, inizia ad essere un po’provante.

Tra l’altro, l’esito delle nostre nottate è diventato argomento di conversazione quotidiana, oltre che oggetto di monitoraggio costante, che viene sviscerato delle mie sporadiche pause caffè e tra la collega che razionalizza, quella che fa la faccia orripilata, quella che te deve trovà una soluzione e finchè non te la trova, te la mena, passo minuti interi a rimuginare su questo stato di cose, oggettivamente scomodo e che, seppure di giorno riesca a prenderla abbastanza bene, ha trasformato le mie notti in quelle di Mr Hide.

La verità è che la sto prendendo proprio male. In particolare, sono un po' di notti che avverto un impulso irrefrenabile di sfogare la frustrazione sull’imperturbabile sonno di Mister P., per cui passo le ore di veglia a punzecchiarlo (sai, tipo un calcetto, una spintarella...) appena russa un po’, rimuginando, nel frattempo, su dettagli della giornata trascorsa sviscerandoli in chiave cospiratoria nei miei confronti...ecco, questa cosa non mi fa bene. 
 
Ma qual è la via? Esiste una soluzione? Perché i pupi non dormono?! E perché, poi, capita che ce ne siano alcuni che si fanno proprio tutta una tirata, quasi a ribadirti che il tuo invece no, il tuo c’ha cicli di 4 ore anche a 2 anni, anzi, ad essere precisi, c’ha un ciclo solo, di 4 ore, e stop? 

Mi sto intrippando nei ragionamenti circolari del lunedì pigro? Quello che ieri c’era una tramontata che gelava le orecchie e tu eri in campo senza cappello e con la polo, convinta che sarebbe stata primavera e mo ti rode? O forse quello del sonno dei pupi è uno di quegli argomenti che finché non hai un figlio consideri  giusto folkloristici e poi diventano un'ossessione su cui interrogarti e roderti di scoramento?

Comunque, oggi sarebbe primavera…scappo che sta per piovere e io sto in motorino!

giovedì 17 marzo 2011

Into the light of a dark black night

Continua a piovere, il vento gelato spazza le strade, impietoso e incurante del calendario. Insomma, la primavera dov’è? Ci sono periodi dell’anno istituzionalmente più sfigati di altri. Io per esempio vivo da sempre lo spauracchio dell’accoppiata gennaio/febbraio: il cuore dell’inverno, le giornate buie, la pioggia in motorino, nessuna festa a consolarti. Poi, un po’di tempo fa, qualcuno mi ha detto “no, macchè, è peggio marzo, in fondo gennaio inizia tardi e febbraio finisce presto, sono mesi corti. Marzo invece, non passa mai…”.
Nel mio immaginario intossicato da anni di serial americani, associavo marzo alla primavera, alle giornate che si allungano, che diventano più tiepide, ai giacconi messi via, alle gemme sugli alberi, ai tavolini all’aperto dei bar, alle passeggiate a pranzo che puoi scendere senza sciarpa tanto non serve. Per questo ci rimango un po’ male ogni mattina, quando apro la finestra e vedo il cielo grigio topo, con qualche nuvola decisamente di troppo. E infatti è inverno. Inutile alleggerirsi, illudersi, fare piani: è ancora inverno, non ci piove. O meglio, ci piove e pure troppo.
A casa siamo ancora tutti raffreddati, Mister P. non ha ancora allentato con l’ossessione per l’aerosol e per i lavaggi del naso, lo Shōgun ancora smocciola generosamente e alterna 3 giorni al nido e 3 a casa, io sono ancora insaccata nel piumone da motorino e non oso entrare a provare qualcuno di quei vestitini a fiori che occhieggiano dalle vetrine.
In Giappone, sta iniziando il periodo forse più bello dell’anno, quello dei ciliegi in fiore (i sakura) ma altre nubi, non di sola pioggia, allontanano la primavera nipponica. Mi chiedo come cambierà la geografia politica il terremoto dello scorso 11 marzo. Mi chiedo come ne uscirà il paese da cui mi sono sempre sentita tanto attratta. Quando ho iniziato questo blog, davvero non mi aspettavo che sarebbe arrivato un evento così grave a sconvolgere la realtà del luogo la cui ispirazione avrebbe, almeno in teoria, dovuto pervaderne l’atmosfera. La verità è che la tragedia accaduta rende impossibile esplorare i dettagli della cultura giapponese senza risultare di cattivo gusto, inappropriata. La verità è che quello che è capitato è così disgraziatamente reale da impedirmi, in questo momento, di trattare qualsiasi argomento anche solo minimamente di ispirazione nipponica in maniera leggera. E quindi, siccome non sono capace di riflessioni più adatte e profonde, mi sento del tutto incapace di gestire la questione. In fondo, davanti alla tragedia umana di tante migliaia di persone e al disastro naturale che si ha investito il Paese e che costituisce un monito, se non una vera minaccia, per il mondo intero, ci si sente in imbarazzo anche solo a chiedersi quando saremo di nuovo in grado di volare fino a lì, in vacanza. Ecco, in questo momento percepisco quanto sia meschino anche formularlo un pensiero così. Non sono in grado di affrontare un tema come questo, devo riconoscerlo. Mi auguro che passi, prego perché passi non so come tradurlo in pensieri adatti, per questo mi scuso ma continuo a deviare le mie riflessioni su altro, su argomenti decisamente più frivoli.


È sorprendente vedere quante persone siano su internet nel pomeriggio di un giorno di festa. Se non avessi creato un blog, mai e poi mai mi sarebbe venuto in mente di connettermi, approfittando dello svenimento pomeridiano dello Shōgun. Immaginando che qualcuno tra voi navigatori si ritrovi per caso a leggere della mia pochezza, vorrei sollevare un quesito: che posizione prende un uomo qualunque di fronte alle immagini di distruzione e di dolore quando, come me, le associa ai ricordi di vacanze passate o ai progetti di viaggi futuri messi temporaneamente in stand by. Siamo tutti inadeguati? Mi sfugge qualcosa? Che dite?

 

martedì 15 marzo 2011

Mister P. e i giacinti


Quando ero ancora una giovane romantica, ritenevo che fare del giardinaggio di tanto in tanto sollevasse il morale, aiutasse la reputazione e facesse bene alla pelle. Armata di guantoni, parannanza - come la chiama mia nonna - che significa grembiule, con tanto di cappello a tesa larga, passavo le domeniche pomeriggio primaverili a interrare bulbi di tulipano, a potacchiare l’ibisco ereditato dalla stessa nonna di prima (che per inciso è venuto a mancare – l’hibiscus – durante la Grande Arsura dell’agosto 2008), ad attaccare pescetti di terracotta sui muri a buccia d’arancia. I risultati non erano grandiosi ma gradevoli: qualche bel tulipano al momento giusto, un gelsomino sornione a ravvivare l’angolo dietro alle poltroncine,  un rincospermo sparuto a proteggermi dagli sguardi indiscreti della coppia gay che abita di fronte (o magari a proteggere la privacy del loro appartamento senza tende dalle mie involontarie occhiate).
Col tempo, come si sa, le cose sono cambiate, è subentrato un marito col pollice verde (e guarda caso, l’estate dopo c’è stata la moria più devastante mai registrata sul mio terrazzetto) e, dopo un anno trascorso immolandosi a riempire  a getto continui un innaffiatoio assolutamente inadeguato e ad innestare geraGni (bleah!) in tutti i vasi sì è guadagnato la gestione degli spazi esterni, scalzando la granitica egemonia Kaiseki.
Io, con la stazza di un balenottero, la frangetta in ricrescita, i piedi gonfi e i nervi perenni, all’epoca mollai la presa con una certa facilità.

L’estate della Grande Arsura è andata come sappiamo e, al rientro dalle vacanze, di fronte alla steppa senza vita che era diventato il nostro terrazzo, mio marito fece la solenne promessa di procurarci un sistema di irrigazione automatico. Io che, pur non avendo ereditato alcun talento in questo senso,   vengo da una famiglia di pollici verdi VERI, ho sorriso con approvazione. Pochi giorni dopo però, è saltato fuori che uno dell’ufficio aveva montato l’innaffiamento automatico da sé e che centinaia di persone ogni giorno montavano sui propri terrazzi sistemi di irrigazione spendendo pochissimi soldi e, quindi, se ne sarebbe occupato lui.

Era settembre, le piante ormai non c’erano più; poche superstiti, irrimediabilmente compromesse, si facevano forza da sole, soffocate dalla sterpaglia. Il sorriso soddisfatto del giorno prima sparì in fretta, di fronte a quella nuova rivelazione, perché Mister P. non è capace nemmeno di svitare col cacciavite a stella i giochi dello Shōgun per metterci le pile. Io lo sapevo, lui lo sapeva ma il terrazzo ormai era cosa sua e io, dal canto mio, ero troppo presa da ALTRO per mettermi a fare la rompi. Un sabato mattina, molti mesi dopo, Mister P. fece una sortita dal ferramenta, dove, per poche centinaia di euro acquistò tutto l’acquistabile (tranne delle cruciali fascette angolari a 90° - come ci spiegò poi il signor F., giardiniere professionista con la parcella di un penalista serio) e diede inizio all’impresa. Alla fine della giornata, tra sigarette e imprecazioni, aveva srotolato un paio di metri di tubo (non collegato alla centralina, né al rubinetto dell’acqua) bucherellandolo qua e là  e il tutto languiva, davanti alla finestra della camera da letto.
Noi abbiamo un terrazzo a L che corre intorno alla casa, niente di eclatante ma pare fatto apposta per montarci un sistema di irrigazione automatica, fatto sta che l’anatema del cacciavite a stella non era una battuta per denigrare la mia metà. La settimana successiva il tubo era ancora lì, penzoloni, circondato dai duecento euro di ammennicoli acquistati a corredo. Il mese dopo, il mio sposo continuava ad annaspare con l’annaffiatoio di polly pocket. A maggio i tulipani erano ancora mezzi interrati e i geraGni particolarmente rachitici. A giugno, abbiamo chiesto il preventivo a un giardiniere per farci montare l’accrocco e, per qualche cento euro in più, la settimana dopo era montato.

Insomma, a parte l’intrusione per il preventivo, io sul terrazzo non ho più messo bocca e non ho più piantato niente, fatto sta che l’altra mattina, mentre correvo dietro allo Shōgun che è stato una settimana a casa con la quinta malattia (®§&~¤Ø¥‽ !) e che si era intrufolato fuori (estrufolato?) mentre rifacevo il letto, mi sono imbattuta in un vaso carico di un’odiosa pianta grassa attraverso cui, non so come, non so perché, cercava di farsi strada l’unico giacinto che piantai quando ero ancora una giovane romantica! Ma va?! Sì.
E allora?
Ma come e allora?! e allora è una figata, è un segno, è una di quelle cose che se fossi ancora una giovane romantica mi farebbero guardare al mondo con occhi sognanti! Un solo bulbo di giacinto, fragile, indifeso, trascurato, dimenticato, spunta dopo anni, semisepolto da quello schifo di crassula portulacea (di cui per inciso non riesco a liberarmi)! È il segno che il bello non muore mai, non importa quanto poco lo curiamo, con quanta cacca cerchiamo di seppellirlo, è lì e rimane dentro di noi!

E questa è una morale alta, secondo me. Visto che ho prodotto un post così educativo, posso concedermi un paio di righe di aggiornamenti frivoli.
Innanzi tutto, devo purtroppo segnalare di non aver fatto nessun progresso che mi avvicini alla borsa di Bally di cui ho parlato la scorsa settimana. E questo è male. Però ho scovato delle pazzesche scatole artigianali per biscotti artigianali che sono una delizia per gli occhi (buttate un occhio a http://www.dolcieventi.it) e sto cercando di frenare l’impulso di ordinarne una dozzina per gli amichetti dello Shōgun che (guarda un po’) compiono gli anni tutti nell’arco di 15 giorni, sennò alla borsa c’arrivo per i saldi del 2012, se mi va bene. E poi, vorrei celebrare il mio spirito da nonna papera, comunicando urbi et orbi che, domenica scorsa, ho preparato i pancakes, che sono venuti buonissimi e che, se siete fortunati (ma de che?), un giorno vi racconterò di quella volta che una cugina americana di mia madre mi ha tenuto un’ora e un quarto a sbattere latte e farina e…

lunedì 14 marzo 2011

Il tuono di primavera


Da quando, con enormi sensi di colpa, abbiamo sdoganato la tv per lo Shōgun mi sono sentita in dovere di crearmi una cultura adeguata in materia di animazione per bimbi molto piccoli. Seguendo scrupolosamente le indicazioni della direttrice del nido (annichilente esempio di donna multitasking, preparatissima e sicura di sé) ho iniziato ad esplorare l’universo dei cartoni d’autore, roba scelta e molto sofisticata, d’importazione perlopiù ma con perle artigianali italianissime.
Sì, perché all’inizio io ero per “la tv no, noi non gliela facciamo vedere” e sorridevo con indulgenza alle mamme invischiate nella rete di Rai Yo-Yo sfoggiando l’espressione illuminata di chi ha trovato la terza via e la percorre con gioia. La verità è solo che lo Shōgun era oggettivamente troppo piccolo per pretendere di disporre di un apparecchio che non aveva mai visto acceso.

Dopodiché è successo, un giorno, per caso. Una dimenticanza, una disattenzione, la tele accesa e lui bazzicava da quelle parti…o, più semplicemente, un giorno ho scoperto che i miei, ignorando scrupolosamente i rigidi dettami materni, lo avevano iniziato al futuristico mondo di Pippi Calze Lunghe. Pippicalzelunghe, capite?! Era già un programma d’epoca quando io avevo 4 anni!
Me lo sono ritrovato che canticchiava “pippi-pippi-pippi!” (avete presente?) che era già troppo tardi per l’intervento in scivolata e sono dovuta correre ai ripari. Lì per lì, decisa a capovolgere la situazione a mio vantaggio,  ho stabilito che avrebbe avuto accesso solo a programmi in inglese e ho scovato 2 cartoni che mi sono piaciuti subito. Uno, Charlie and Lola, parla di questi due fratellini, lui più grande e lei piccola e moooolto petulante, che esplorano tutti gli anfratti del politically correct, e si accompagnano ad una grafica glamour, colori pastello e stampati vintage. L’altro, un filo più datato, Thomas the Thank Engine (tradotto per mortali Il trenino Thomas) è la storia in plastico di una locomotiva nell’isola di Sodor (dove starà, boh) che, con i suoi colleghi trenini, vive avventure quasi sempre sfocianti nel disastro ferroviario e descritte in londinese stretto (in effetti, un po’ ostico da decifrare) ma che annovera tra le voci narranti (forse è un po’ più che datato) anche Ringo Starr, per cui voi capite che era una chicca da non lasciarsi sfuggire.
Insomma, quando, ad un certo punto, lo Shōgun ha iniziato a reclamare Charlielola! e Thomas! ho pensato che fosse fatta e mi sono sentita di aver in mano la chiave per il bilinguismo. Questo finché la maestra in questione non mi ha illuminato sul quanto i cartoni che avevo superficialmente approvato non fossero adatti e mi ha buttato lì un po’ di titoli alternativi che io ho scolpito a lettere di pietra nella mia mente.
A quel punto, manco ve lo dico, mi sono messa all’opera per colmare le mie smisurate lacune, con il risultato che ora lo gnomo è uno sfegatato della Pimpa. Sì, la-Pìmpa-che-schifo, l’ho pensato anch’io lì per lì, perché a me la Pimpa non piaceva nemmeno quando a 7 anni me la ritrovavo sul Corriere dei Piccoli (che mi faceva squallore pure quello)  e, esattamente come Pippi, era vecchia pure allora!
E adesso? Adesso – per dire come si cambia! - la cito a memoria, conosco l’esatta successione degli episodi nelle varie raccolte, so a quali titoli associare i corti e a quali gli episodi di 30 minuti, conosco le parole delle canzoni e quando canto “Che puzzetta, che odorino!” mi commuovo in almeno un paio di passaggi.  
La Pimpa è una riscoperta, mi ha sistemato la coscienza su tanti fronti: dal punto di vista dell’adeguatezza servizi erogato/utente finale so che è adatta ad un bimbo dell’età del micio, dal punto di vista della sete di shopping, ho scoperto di poter attingere ad una quantità di gadget, libri e dvd da far impallidire Sex and the City e che – occhio che questo per me è cruciale – sono disponibili su un mercato un po’ secondario (de nicchia) non su quello super inflazionato e contenutisticamente scadente di Feltrinelli…insomma, la Pimpa rappresenta, almeno in parte, l’acquisto sfida, quello Trovami se mi vuoi!, come piace a me.
E poi le canzoni: ragazzi…il Tuono di Primavera non è un riferimento truce alla digestione pesante, è pura poesia!

domenica 13 marzo 2011

Lo stile del Kaiseki


Questo blog si intitola Kaiseki Style e il sottotitolo, in qualche modo, richiama al Giappone.
Kaiseki, in giapponese, è l'aggettivo che descrive una cena tradizionale composta di molte portate ricercate. I caratteri kanji che compongono la parola significano letteralmente "pietra nel petto" e...insomma, è un soprannome che mi è stato affibbiato qualche anno fa, dalla persona che sarebbe diventata mio marito, all’indomani della estenuante esperienza di una vera cena Kaiseki, in quel di Miyajima. Lì per lì non ero del tutto convinta che si trattasse di un complimento, ma con il tempo ho imparato ad apprezzare tutte le sfumature che questo pseudonimo racchiude.
Una miriade di chiaroscuri: dettagli che assumono un significato diverso a seconda del momento o dello stato d’animo con cui li si accoglie.
In fondo, la mia passione per il Nihon dipende molto da questo: è la passione per un luogo ed una cultura così profondamente sfaccettati da offrire un’interpretazione sottilmente diversa ad ogni ulteriore approccio.
In Giappone, almeno così penso io, le emozioni non sono scontate e questo soprattutto perché non scaturiscono da sollecitazioni chiassose. In Giappone ciò che è bello è sottilmente bello e quasi tutto può esserlo, se osservato nel modo giusto.
Sempre durante quel viaggio (il viaggio dell’ammòre, visto che mi sono sposata poco dopo essere rientrata in Italia) ho capito come una foglia di momiji (l’acero) sappia essere infinitamente più interessante e poetica di un quadro amato e come il silenzio di un giardino zen, più melodioso di una musica conosciuta.

Bum – dirà qualcuno. Ma questo è il mio blog e questa è una mia opinione, quindi mosca!
Questo panegirico, dopo le tante righe impiegate per descrivervi nel dettaglio quanti metri percorro in pausa pranzo alla caparbia ricerca di uno sbattitore elettrico a fruste o di un refill viola per la Mont Blanc, oggi è necessario.
Perché io ho creato un blog che si ispira al Giappone (almeno nel titolo) e due giorni fa il Giappone che amo tanto è stato travolto da un evento drammatico, grave, che mi disorienta per la sua enormità.
Il Dai Jishin (il grande terremoto) si abbatte su un popolo distante da noi, non solo geograficamente. Un popolo diverso, ineffabile e complesso, che nonostante le migliaia di vittime, la distruzione suprema, nonostante le immagini da cartone animato dell’apocalisse, rimane compostamente in disparte.
Non giudico e non mi esprimo, soprattutto perché amo – come a volte accade – senza comprendere fino in fondo ma poche righe meno che frivole, in una domenica di pioggia e vento come questa, erano necessarie.

Almeno per il Kaiseki.

giovedì 10 marzo 2011

Borse




Nel finesettimana è piovuto (naturalmente, casomai avessimo pensato di giocare un po’ a golf) e ne ho approfittato per cercare un paio di occhiali da sole misteriosamente scomparsi da una quindicina di giorni. La sparizione si associa al mio cambio di borsa, quindi è intuibile che gli occhiali fossero rimasti nella vecchia borsa e infatti c’erano. Però a quel punto, visto che lo Shōgun dormiva e il marito rifletteva, a sua volta, con gli occhi serrati, accanto alla prole, ne ho approfittato per dare un’occhiata ai tesori che in genere si nascondono nelle mie borse. Sì perché io ho molte borse, accumulate con passione in anni di acquisti adoranti, ma le cambio assai di rado e senza mai svuotarle se non delle cose cruciali: portafogli, chiavi e poco altro.
E siccome in genere mi trascino in giro tutto quello che riesco a raccattare, finisco per avere delle borse stracolme (dai calzini antiscivolo, alle salviette antizanzare, ai cosmetici…). Capita, quindi, che quando ne riprendo in mano una dopo mesi di non utilizzo, mi imbatta in oggetti dati per persi da mesi e, a volte, dimenticati. Nella fattispecie, oltre agli occhiali, domenica ho ritrovato: un lucidalabbra Dior comprato e usato forse 2 volte, penna e matita Caran d’Ache, superchic ed elegantissime, le mie preferite che come ho fatto a non pensare di averle in tutto questo tempo, due taccuini per gli appunti (io se le cose non me le scrivo, le dimentico…e poi, adoro fare liste e depennarle man mano che archivio i vari punti!), uno specchietto utilissimo, un mazzo di chiavi dell’ufficio dichiarate disperse forse lo scorso anno, una confezione di aspirine per il mal di testa, una confezione di moment, sette pacchetti di gomme (di cui 3 interi), un bacio perugina, un pocket coffee, un cioccolatino tedesco sciolto, 4 salviettine monouso sterilizza ciuccio, una penna parker con il logo di una società, una penna a 4 colori di Peter Rabbit comprata in Giappone (perché? chissà…), un portasigarette a pois argentati (chiaramente non fumo), 2 burri di cacao idratanti, un ventaglio azzurro con i pesci rossi, un carnet da 10 di biglietti dell’autobus, un collirio scaduto, 3 bustine di Polase solidificate, il listino prezzi di un centro massaggi cinese (cielo!) e varie altre amenità. E’ stata una domenica proficua? Non saprei dirlo ma ho capito una cosa: provo un grande trasporto verso un secchiello bellissimo che ho visto da Bally…chissà quante cose ci stanno dentro!

A belly full of wine - chapter 10


La notte faccio una serie di incubi in uno dei quali, Emma mi affida due gemelli che diventano sempre più piccoli fino a trasformarsi in due Tic Tac e io finisco per perderli. Il sabato mattina mi sveglio presto, stanca e nervosa e neanche la prospettiva del teatro riesce a tirarmi su. Mi infilo la solita tuta-da-spesa e vado al supermercato: ho ancora un sacco di roba avanzata dalla sortita della settimana scorsa ma ho bisogno di un po’ di sana ruotine dopo la serata di ieri.
Mentre gongolo nell’assorta contemplazione di una pila di confezioni di bastoncini di formaggio da cuocere al microonde, ho l’impressione di captare una risata familiare proveniente dalla corsia dei cibi in scatola. Occhieggio intorno e non vedo nessuno, allora abbasso la testa per cercare di guardare oltre lo scaffale alle mie spalle e in questa posa da tartaruga delle nevi mi sento chiamare:
“Trish…che sorpresa! Hem…cosa stai cercando?”
Alzo la testa di scatto e sbatto contro il bordo della mensola.
“Porc…” Mi piego in avanti premendo le mani sulla sommità del cranio, le confezioni di bastoncini di formaggio si sparpagliano ai miei piedi e Jarrod, in piedi di fronte a me, si china per raccoglierle.
“Non dovresti mangiarla questa robaccia: sai cosa ci mettono dentro?! Oltre al fatto che è piena di grassi…”
Accanto a lui, Penelope sorride; cioè, chinata come sono non riesco a vederle la faccia ma sono sicura che da brava modella-ballerina stia deridendo le mie debolezze gastronomico-industriali.
Oltre che la mia ridicola goffaggine.
Cerco di raddrizzarmi alla meglio e biascico un: “Ciao ragazzi, come mai da queste parti?”
A questo punto Penelope parla, credo di non aver mai sentito la sua voce prima, se si escludono le due insulse parole che ci siamo scambiate la sera che l’ho conosciuta, alla libreria.
“Jarrod me prapara el Timbalo” Sorride ed è davvero carina “Siamo venuti a fare la espesa” E così dicendo infila una manina sotto il braccio di Jarrod e lui gliela stringe.
Ho la nausea.
“Ah, il timballo…è buonissimo, sei fortunata, Penelope” Mi sforzo di apparire cordiale ma, non capisco perché, vorrei saltare sullo scaffale più alto del reparto e bombardarli con bastoncini di formaggio in offerta.
“E’ un po’ che non ci sentiamo.” Jar sembra leggermente a disagio. Almeno te ne sei accorto, razza di fedifrago, penso tra me.
“Senti, il fratello di Pen è in città e pensavamo di organizzargli qualcosa di carino…non so, portarlo in qualche locale, andare un po’ in giro…ti andrebbe di venire?”
“Oh, sì Trisha…sono sicura che mio fratello te piacerebbe muchissimo” Esclama Pen.
E allora? Cosa stanno cercando di fare? Non vorranno mica combinarmi un appuntamento?!
Sicuramente sbaglio ma mi sento un po’umiliata: cosa si è messo in testa Jarrod? Che non posso trovarmi un ragazzo con cui uscire senza che lui e la sua preziosa espagnola intercedano per me?!
“Grazie ragazzi, ma per la verità questa sera ho già un impegno” Li guardo compiaciuta e aggiungo “Vado all’Opera…”
“Ah, che bello!” Esplode Penelope.
“Non sapevo ti piacesse l’Opera…” Jarrod mi rivolge un’occhiata storta.
“No, a te non piace l’Opera: io la adoro” Forse calco un po’ troppo l’adoro perché lui non mi sembra convinto. O forse c’è solo rimasto male che ho un appuntamento galante e che vivrò una serata magica, indossando uno strepitoso vestito da sera rosso fuoco ed un collier di diamanti da togliere il fiato. Va bene, magari non sarà proprio così, ma di certo non passerò la serata a mangiare una torta riciclata e a guardare televendite alle tivvù mentre Jarrod se la spassa con la sua nuova amichetta.
“Bene, divertiti allora” Dice Jar, poi si rivolge a Penelope: “Noi faremmo meglio ad andare, dobbiamo ancora passare a prendere la carne”.
“OK. Senti Trisha, mio fratello si ferma fino a Natale: magari la serata speciale possiamo organizzarla per venerdì prossimo…te va?” Dio, perché deve fare la gentile a tutti i costi?
“Mah, magari ci sentiamo in settimana…”
“No, no, dobbiamo assolutamente stabilire ora: mio fratello sa preparare dei piatti spagnoli deliziosissimi ma bisogna organizzare per tiempo. Diglielo anche tu, Jarrod…”
“Può decidere da sola, Pen…” Ma sentitelo!
“Ok, allora, accetto volentieri Penelope: a venerdì”. Beccati questa, villano!
“Bene, buon teatro per stasera. Ciao.” E si allontanano.

Mentre torno a casa ripenso all’atteggiamento mio e di Jarrod: impacciati, imbarazzati, suscettibili, è difficile da capire se si pensa che fino a poco più di 10 giorni fa rappresentavamo una vera e propria costante l’uno per l’altra. Siamo migliori amici da secoli, abbiamo sempre parlato di tutto, siamo stati due punti di riferimento indiscutibili per le rispettive vite. E’ assurdo cambiare così d’improvviso, come se niente fosse. E il bello è che ancora non riesco a capire come siamo potuti arrivare a questo punto. La nostra amicizia non si è mai indebolita tanto prima, nonostante le reciproche storie.
Quando arrivo a casa trovo, davanti alla porta, un piccolo bouquet di lillà e mughetti con un bigliettino. E’ di Colin – dio, quanto è raffinato - dice che mi passerà a prendere alle 19.30 e, soprattutto, di non cenare. Wow, quindi dopo il teatro la serata proseguirà…
Infilo una confezione di bastoncini di formaggio nel microonde e lavo un paio di carote. Mentre aspetto che la filante morbidezza degli stick raggiunga il grado di gommosità ideale, inizio a riflettere su cosa mettermi per l’opera. Devo trovare qualcosa di elegante, ma non troppo sfarzoso perché non credo stiamo andando a vedere una prima. Cavolo, se non avessi sprecato la gonna asimmetrica la settimana scorsa…Mentre mi accomodo davanti al piatto di bastoncelli fumanti, però, mi investe, vigliaccamente, la visione del fisico tonico e slanciato di Penelope. Scopro la mia mano che pizzica quel rotolino sulla pancia che staziona beato intorno al mio punto vita da un po’: in effetti, negli ultimi tempi, ho lievemente trascurato i miei addominali…a guardare bene, tutti i miei muscoli sono leggermente rilassati. Lo so, dovrei andare in palestra, ma quando?
E poi io odio la palestra, è una cosa viscerale, che non riesco a controllare: oltre a detestare profondamente ogni tipo di fatica fisica, tutto il mio essere si rifiuta di sprecare ore in puzzolenti seminterrati, a cercare di copiare i movimenti convulsi di un istruttore strillone. Mi ripugnano in modo particolare le serie, le ripetizioni di pesi, gli esercizi di fronte allo specchio, i saltelli, il sudore, le docce superaffollate, gli spogliatoi umidi, i completini da aerobica…A questo va aggiunto, dettaglio niente affatto trascurabile, che sono leggermente scoordinata. Giusto un pochino insomma, ma quel tanto che basta per finire sempre a fare la figura della sfigata quando tutti sembrano così portati, così realizzati, mentre io arranco, madida e con gli occhi sbarrati…
Lo so, sono scuse, sono le solite vecchie scuse.
La mano dalla pancia passa alle cosce, mentre i bastoncini, desolatamente trascurati, si raffreddano nel piatto. D’un tratto prendo una di quelle iniziative che, di solito, il corpo prende senza consultare il cervello: afferro il piatto e rovescio la mia delizia di formaggio fuso nella pattumiera. Poi, addentando una carota, rovisto in frigo finché non riesco a trovare una confezione di fiocchi di latte light. E, non ancora soddisfatta, appena finito di mangiare, alzo il telefono e chiamo Zoe.
“Trish, che sorpresa!”
“Ciao Zoe, scusa se ti chiamo così presto…stavi per farti un riposino?” Che cosa assurda da chiedere a una come Zoe!
“Ma no, figurati, volevo fare un salto dal parrucchiere: dovrei dare una ravvivata alle meches…” Appunto.
“Ah, allora non ti disturbo…”
“Guarda che non mi disturbi affatto…che hai Trish, mi sembri strana…”
“Sì, cioè, no…è che volevo chiederti una cosa che…senti, quella palestra in cui vai tu…”
Un gridolino acuto esplode nella cornetta: ”Hai deciso di iscriverti?! Che bello, Trish, possiamo andare insieme!”
Oddio, ha frainteso, ha sicuramente frainteso. “Veramente, pensavo più che altro…”
“Ma dai, andiamo ora: dal parrucchiere ci passo quando usciamo! Facciamo alle 16 lì davanti?”
Cerco disperatamente di recuperare la situazione: “In realtà…pensavo di chiederti qualche informazione, magari sui prezzi…”
“Non ti preoccupare, come socia posso presentarti io e farti avere uno sconto sull’iscrizione…e poi la palestra ha tutto: beauty center, sauna, estetica, magari ti scappa di farti una ceretta al volo e non sai dove andare? Beh, loro sono aperte fino alle nove di sera…sono grandiose…è davvero conveniente, tutto considerato”
Tutto considerato? La mia realtà di misera stagista mi fa indietreggiare, almeno moralmente, davanti all’idea di convenienza che può avere una come Zoe e il mio lato pigro (che è un lato abbastanza ingombrante) fa una capriola di gioia.
Tirarsi indietro adesso, però, diventa complicato: so che Zoe non mi lascerà andare se prima non l’avrò assecondata almeno per questo pomeriggio. Il mio silenzio terrorizzato deve suggerirle qualcosa perché dopo un po’ aggiunge:
“Senti, oggi vieni a provare come mia ospite, poi decidi…” Mi dico che come compromesso è accettabile e le do appuntamento alle 15.30 di fronte alla palestra.
Riaggancio tirando un sospiro di scampato pericolo, anche se non riesco ad essere completamente rilassata: il total perfection center costerà sicuramente troppo perché io possa permettermelo e Zoe sa essere tremendamente ostinata.
Intanto devo rimediare qualcosa di appropriato per fare ginnastica. Vado in camera e frugo nel cassetto dello sport (un cassetto piuttosto piccolo, in realtà) poi tiro fuori una vecchia sacca di tela e ci infilo dentro un paio di fuseaux grigi un po’ corti, una maglietta oversize scolorita e dei  calzini bianchi di spugna, dopodiché afferro le mie Nike storiche e vado in terrazzo per cercare di lavarne le suole, alla buona.
Mezz’ora dopo sono per strada che sgambetto verso la palestra di Zoe, non ho ancora deciso cosa mi metterò stasera ma posso sempre pensarci durante l’ora di lezione e posso sempre chiedere qualche velato suggerimento a Zoe, stando attenta a non farle capire che devo uscire con Colin.
Appena mi vede, Zoe mi bacia, raggiante: credo che l’idea di fare proseliti, anche solo in teoria, la gratifichi molto. Entriamo nel Club e devo constatare che è davvero bello: pavimenti di marmo, gigantografie di spiagge caraibiche alle pareti, ci sono anche un bar e un ristorante all’ultimo piano. Tutto sembra già troppo lussuoso perché io possa iscrivermi. E comunque non troverei mai il tempo per frequentare una palestra con assiduità ed è risaputo che, in questi progetti, la costanza è tutto. Scendiamo negli spogliatoi e…ragazzi che classe! Ampi, confortevoli, con una lunga fila di armadietti lucenti e pile di asciugamani morbidi per i soci; accanto allo spogliatoio ci sono anche la sauna e il bagno turco, oltre ad un’invitante, gigantesca, vasca idromassaggio. Prendiamo posto su due panche vicine e iniziamo a spogliarci. Immaginavo che Zoe sarebbe stata elegante anche nella sua mise da palestra, ma non mi aspettavo che potesse essere tanto, come dire, intonata al resto dell’ambiente: ha dei panta-jazz rossi, morbidi e leggerissimi che quasi mi viene la tentazione di chiederle di prestarmeli per l’opera, tanto le stanno bene, un top sbracciato bianco con i bordini rossi che le lascia la pancia (molto piatta, a dire la verità) scoperta e degli scarponcini neri super tecnici. Completano il tutto un polsino di spugna azzurra e un asciugamano blu con la scritta Fitness. A guardarla, quasi mi commuovo. Soprattutto se procedo all’impietoso ma inevitabile confronto con la mia tenuta. Ingolfata nella magliettona spiegazzata, con due gambette che sbucano dal ginocchio in giù e le scarpe ancora un po’ umide devo riconoscere che l’effetto è più da profuga che da sportiva, però, tutto sommato, per una sola volta può andare, così mi scambio un sorriso divertito con Zoe (anche se il suo assomiglia più ad un ghigno di ribrezzo) ed esco dallo spogliatoio.
Come avevo previsto, non sono esattamente quello che si definisce una creatura leggiadra mentre mi produco in improbabili combinazioni a tempo (si fa per dire) di musica. Però, incredibilmente, non sono nemmeno così imbranata come mi aspettavo e quando la lezione finisce annaspo con una punta di soddisfazione mal celata. Zoe deve accorgersene perché mi viene vicino e con un sorrisetto mi dice: “Hai visto? E’ divertente, e Sergio (l’istruttore) non è nemmeno uno dei più bravi…dovresti fare una volta con Sonia.” Ridacchia con l’aria di chi la sa lunga. Prima della doccia, ci andiamo a bere un integratore al bar della palestra, ambiente che consta di un bancone e qualche tavolino con un barista molto in tiro e spiritoso che saluta Zoe dimostrando un certo entusiasmo. Considerato quello che ho sudato, decido che un integratore di sali minerali è proprio quello che mi ci vuole e mentre sorseggiamo un’acqua minerale con del limone Zoe e un bibitone giallo fosforescente io, mi sento molto rilassata. Così rilassata che quando Zoe mi dice quanto costa l’abbonamento in quel tempio del benessere non stramazzo al suolo priva di sensi. Anzi, le dico che, sì è un po’ carestoso, ma che tutto sommato potrei farci un pensiero. Lei sembra soddisfatta: è una astuta, Zoe, sa come agire per ottenere un risultato e sa che, oggi, non c’è bisogno di insistere o calcare la mano perché devo assimilare l’idea di una nuova me atletica e in forma ma che tra pochi giorni sarò io a implorarla di presentarmi come nuova socia. Fortunatamente per lei, però, Zoe ignora cosa possano significare uno stipendio da fame e la precarietà lavorativa, quindi non sono sicura che capirà quando cercherò di spiegarle che davvero non posso permettermi il suo club delle meraviglie. Comunque, ora sto proprio bene, quindi non è il momento di privarla delle sue certezze, non sarebbe neanche carino...
Dopo il drink scendiamo a fare la doccia e usciamo che sono le sei passate. E’ veramente tardi e io non ho ancora deciso cosa indossare stasera. Mentre torno a casa sono profondamente concentrata e al portone non saluto nemmeno la signora del piano terra che sta controllando la cassetta delle lettere. Una volta nella mia camera, spalanco l’armadio e mi siedo sul letto in assorta contemplazione.
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