A belly full of wine - Romanzo

martedì 13 dicembre 2011

I've just seen a face...

Sto meditando sulle proprietà eccitanti delle patatine fritte. Non vi fate strane idee: le abbiamo sdoganate con lo Shogun e la storia è andata più o meno così. Mangia 7 patate fritte di numero, con l’occhio brillante e svariati “mmmmm” di approvazione, dopodiché passa le ore successive come in preda a un trip allucinogeno, tra urla, schiamazzi, corse scoordinate e abbondante, copioso sudore. Sono perplessa: compro tè bianco deteinato al vapore, non gli do mai la cioccolata, dopo che un’amica ha dichiarato di aver letto che i succhi di frutta sono vasocostrittori, ho smesso pure con lo Yoga e adesso viene fuori che il gatto è patatafrittareattivo? E magari è pure colpa mia che l'ho sensibilizzato! Tremendo…

Bell’attacco di post: un incipit da vecchi tempi, alziamo un po’ il tiro (con tutto il rispetto per le patatine). Vogliamo spendere due parole sulle azioni Unicredit? So che non devo sfogare nel blog le mie ossessioni, ma il tracollo di Unicredit, in particolare, è qualcosa con cui davvero non riesco a riconciliarmi. Probabilmente perché ha coinciso con l’ingresso del Kaiseki nel dinamico mondo della borsa. L’ingresso e l'arresto direi, visto che, molto paraculescamente, ho deciso di comprarle appena prima della loro catastrofica discesa verso il maelström. E quindi sono lì, ferme, io cerco di dimenticarmele ma non ce la faccio e, che dite, proviamo a parlarne qui, tipo terapia? Magari mi passa…magari no. Come dite? Non ho studiato Economia? Certo che sì ma ce c’entra…io sono esperta di altro! Di cosa? Non voglio tirare in ballo troppi argomenti nello stesso post, ve lo spiego la prossima volta.
Come? Non ho trovato il modo di vendicarmi con chi mi ha suggerito di acquistare Unicredit? Questo potete chiederlo a Mr P.: chiedetegli in particolare dei sottilmente velenosi riferimenti  che subisce da un 3 mesi a questa parte. A metà ottobre, in un impeto di esasperazione si è anche offerto di farmi un bonifico risarcitorio. Ho rifiutato ovviamente, anche se…^^
Ad ogni modo, questo è un altro tema poco indovinato: è deprimente e inutile. Tanto Mr P. – da espertone quale si è dimostrato – l’ha detto che la borsa è ciclica. L’ampiezza dei cicli al momento non l’abbiamo approfondita ma ho deciso che preferisco non sapere.
Vorrei chiudere questa chiacchierata (di me con me stessa…a meno che qualcuno ora – OH MIO DIO! – non stia leggendo) tirando in ballo una canzone. (un'altra?!?!?! aò, il blog è mio!). Cmq, questa è bella, proprio divertente. 
Famosa? Direi di sì ma chissà, magari sorprendo qualcuno che non la conosce (vediamo chi ce casca). Vi metto il link in coda. A proposito di link, avete notato – sì! – che le ultime parole degli ultimi post erano di un colore diverso dal resto del testo? Avete capito che si trattava di link, vero? No, perché nessuno ha commentato la trovata come pazzescamente geniale quindi…mi era venuto il dubbio che l'aveste presa per un attacco momentaneo di daltonismo...


PS Vorrei spendere 2 parole sul sottile riferimento al tracollo della borsa che ho pensato di sintetizzare nell'immagine simbolica di una borsa a tracolla. Qualcuno l'aveva notato? Sì? No? Ok, taccio...

venerdì 2 dicembre 2011

Maybe I'm amazed!

È passata una settimana, sono fuori tempo massimo? Vi interessa ancora? Ok, allora vado: concerto Paul (uno di noi ^^), Bologna 26-novembre. Il Kaiseki, Mr P. e Sbero (amico storico di Mr P., beatlesiano invasato che ha urlato a squarciagola per 3 ore di concerto, dimostrando un’impressionante padronanza dei testi e una capacità polmonare notevole per un tabagista qual è). Lo Shōgun? Depositato dai nonni compiacenti alle 12.30 del sabato e recuperato alle 15.00 della domenica. Io, ammetto, non c’ero mai stata. Cioè, forse dovrei dire che non ero mai stata ad un concerto in un’arena/stadio…insomma luogo grande, capiente.
In realtà a 8 anni andai al concerto di Stevie Wonder a Roma ma Mr P. dice che non conta per vari motivi: 1) non avevo comprato i biglietti, ce li aveva regalati un cugino americano di mia madre che faceva il tecnico del suono o qualcosa di simile, 2) non conoscevo neanche una canzone, anzi avevo sentito I just called to say I love you ma non sapevo le parole, quindi non la cantai, 3) il massimo dell’interazione con gli altri fan avvenne quando mia madre, dopo aver subito per un certo tempo zaffate di sudore, fece al nostro vicino il gesto del naso (tipo “puzzi!”) per suggerirgli di andare a dimenarsi più in là.

Insomma, diciamo che il concerto di Paul McCartney è stata la mia prima, tardiva esperienza di condivisione mistica ed esaltazione da decibel e, ragazzi, è stata di una bellezza indicibile.
Partiamo dall’inizio, da quando ci siamo schiacciati dentro il pullman per arrivare a Casalecchio di Reno e, dopo aver ingurgitato tigelle gusti misti, abbiamo fatto il nostro ingresso trionfale nell’Unipol Arena. Premetto che la prima impressione mi suonava un po’ buffa: avevamo posti laterali (dettaglio insignificante, dal momento che abbiamo seguito tutto il concerto in piedi, all’uscita delle scale, con una visuale notevole), quando siamo andati ad occuparli (almeno finchè non hanno spento le luci e ci siamo dileguati come giaguari nella notte) ho stimato che la mia vicina potesse avere forse qualche anno meno di mia nonna. Qualcuno ma non molti. Stava seduta composta col marito, le calze coprenti e le scarpe ortopediche…voglio dire, curioso no? Cioè si trattava pur sempre di un concerto rock, di sera, fuori città, col freddo…voglio dire, io mia nonna non ce la vedo che si veste ed esce per andare al Palalottomatica…non la trascino nemmeno al cinema! Questo per dire che era presente un pubblico eterogeneo. La ragazza vicino a cui sono finita dopo la fuga, una napoletana molto carina, ha esordito piangendo. Cioè piangeva proprio, con le lacrime. Lo so perché, a un certo punto le ho dato anche due pacchette sulla spalla come a dire “su, su…”. Mi sembravo matta. Io, non lei. Come intuisco la provenienza partenopea? Le avrò fatto circa 30 foto col suo i-phone, alla fine sapevo pure il numero di scarpe.

Lui, Paul. Ecco, lui, in effetti, ha una certa età, eppure, ve lo dico? Verso metà del concerto, dopo che si era tolto la giacchetta da ussaro, dopo che il sudore gli aveva un po’ sciolto il fondotinta e scompigliato un po’ i capelli…con quella camicia bianca e le bretelle…aò, m’è sembrato un gran figo!
In conclusione, il concerto è stato grandioso, le canzoni emozionanti, la sua voce impeccabile (cioè, veramente, sembrava registrata!), il calore del suo popolo che cantava, Napoli in lacrime vicino a me...
Mi sono commossa. Mr P. credo di non averlo mai visto così agitato, lui che è un uomo composto.
Insomma, per Paul McCartney? Direte.
Sì signori, per Sir Paul.
Ora, io sarei più una fan di John però, però a Bologna…Onesweet dream came true today!

sabato 19 novembre 2011

People say I’m lazy, dreaming my life away...

E quindi sono un’inconcludente. Non c’è niente da fare, è la storia della mia vita: inizio qualcosa e non la finisco mai. In più di 30 anni (a questo punto preferisco non tediarvi con fastidiose, ulteriori precisazioni) ho anche elaborato la teoria secondo cui non ci sia niente di così preciso da finire o – meglio – che i presunti traguardi che sei abituato a considerare siano delle puttanate, più o meno tutti.
E che siano pure deprimenti. Cioè, è come dire, hai iniziato a studiare il piano, prima o poi, se sei abbastanza bravo, finirai. E tu pensi tiè – e magari fai pure le corna. Anche se in realtà, idealmente, entri nella fascia del finito quando inizi a saper fare una cosa abbastanza bene perché un profano possa – dico per dire – sentirti suonare un waltzerino, anche da cani,  e considerare tra sé e sé: questo sa suonare. Anche se il pensiero successivo è “anch’io ho sempre voluto imparare ma non avevo l’orecchio (o la costanza, o il tempo…)” e – zac – la malinconia. E’ che il senso di colpa ci rovina la vita. Almeno la mia. Non so voi, forse godete di una maggiore autonomia di pensiero, forse vivete per voi stessi. Forse siete degli spiriti liberi, io no. Io una mente libera non lo sono mai stata, anzi,  passo il tempo a costruirmi limiti e barriere, scuse, alibi, pregiudizi.
Comunque, per tornare al discorso dell’inconcludente, pensate che conti qualcosa? In fondo, nell’equilibrio generale delle cose, contano qualcosa le centinaia di caroselli che elaboriamo nella nostra mente senza muovere fisicamente un muscolo? Credo di no. E questo un po’ mi riconcilia con il senso di delusione che, altrimenti, non dovrebbe lasciarmi scampo. Ma sono solo momenti.
Io credo che si tratti di novembre. Insomma, novembre è un mese difficile, no? C’è questa cosa, per esempio, che mi sono accorta di non riuscire a comprendere del tutto: iniziano ad addobbare Roma come se fosse già Natale. Al 10 di novembre. Cioè, capiamoci, a me piace il Natale e sono pure d’accordo di trovare il panettone al supermercato in quelle fasce periodiche indefinite; tipo che, tra ottobre e febbraio, se ti va, sai di poter comprare il Rustego alla Sma. È proprio l’idea di trovarmi i negozi tutti addobbati di luci e ghirlande di pino silvestre la sera, quando esco dall’ufficio, che mi disturba. Insomma, che diamine: mancano 2 mesi! E fanno 25 gradi a pranzo, voglio dire, così per forza si perde la poesia. Così sembra di vivere nel Truman show: Natale è quando decidono loro. Forse è per la crisi. La gente si sforza di tenersi alto il morale con il vischio fuori stagione.
E' per forza novembre. Di solito il mese che mi pesa di più è febbraio ma anche novembre si piazza bene. Voi ce l’avete un periodo che proprio non vi va giù? Che già lo sapete che vi scoccerà? È un po’ da matti prendersela con i mesi, lo so. Ma con qualcuno te la devi prendere, no? Cioè, questa è una delle cose che mi riesce meglio: io la chiamo condividere le responsabilità.
Outlook che si blocca, il salumiere che non sa tagliare il prosciutto, mia nonna che – come il postino – suona sempre due volte, chi mi parla come in un videogioco: meno parole usa, più punti guadagna, Mister P. se mette le posate a testa in giù nella lavastoviglie, l’amica che ti invita e poi si scorda, quella che ti chiama e non ti deve dire niente, la maestra dell’asilo che fissa l’incontro alle 2 di pomeriggio, la commessa stronza, quella cretina, il vigile al semaforo la mattina che non fa mai scattare il verde, chi mi fuma davanti per strada, la collega che cammina con me e si ferma per chiacchierare con qualcuno e io non posso proseguire da sola, quello del quarto piano la cui vita sembra scandita dagli orari del nostro sistema di innaffiamento automatico, il contatto di Facebook che mi invade Skype e poi mi dice ma sei sempre connessa?!, quelli che lavorano da Feltrinelli che sono maleducati e ignoranti, le casse del supermercato che ne aprono sempre solo 2 anche se ci sono 40 persone in fila, gli elettricisti del negozio sotto che parcheggiano sempre davanti al nostro cancello, quelli che parcheggiano in doppia fila e bloccano l’autobus, l’autobus bloccato che inizia a suonare il claxon, il barista che mi fa il caffè troppo corto, quello che me lo fa troppo lungo, gli storni su lungotevere che puzza tutto di merda... E soprattutto me stessa, che passo ore utili condividendo le responsabilità con tutti i casi umani che intersecano la mia traiettoria, che mi lagno per i mesi freddi, per quelli caldi e pure per quelli tiepidi, che mi intestardisco sui dettagli e perdo la visione di insieme, che trovo le scuse migliori per sottrarmi a questo fluire, così come viene.

lunedì 7 novembre 2011

May you sta-a-a-ay forever young...

Capisci che il tempo passa da tante piccole. Il compleanno è una di queste, l’aver sonno la sera alle otto e mezza è un’altra. Ma nessun segnale sa essere esplicito come i campioni di prodotto che ti regalano in profumeria. Fino a non molto tempo fa, dopo un acquisto, mi trovavo struccanti, maschere di pulizia, anticellulite. Ora (venerdì scorso, nello specifico): gel antietà, siero antietà e super idratante stop-all’-invecchiamento. Grazie tante! È che da un lato le profumiere hanno la prerogativa di mettere in evidenza il marcio che c’è in te (il brufolo sulla punta del naso? I cuscinetti? La ruga? Il capello grasso? i che c’è, c’è direbbe una mia amica napoletana!) sbandierarlo senza ritegno a voce alta e, con un sorriso, proporti una soluzione che generalmente costa come un tranfert intercontinentale e che ha eccellenti probabilità di rivelarsi del tutto inutile. E, in ogni caso, il punto è che accendono letteralmente i riflettori sul difetto che tu stai miserabilmente tentando di nascondere o di cui non hai – tapina –ancora preso coscienza.
Una volta sono stata inchiodata dallo sguardo laser di una commessa che mi ha parlato, per svariati minuti e senza mai distogliere lo sguardo dalla mia fronte, spiegandomi che aveva un eccellente prodotto anti lucido per la zona T. Cioè, in generale va anche bene: mi stai dando un’informazione, grazie. Ma il modo era agghiacciante e la fila di persone che, dietro di me, condivideva la filippica anche!
Insomma che diamine, un po’ di tatto! Anche questa storia della cellulite, mi chiedo, ci vorrà un minimo di preparazione psicologica per parlarne, o no? Voglio dire, prima di riempirmi di campioni di Somatoline (ci sono persone che ucciderebbero, lo capisco) ti vorrai porre il problema se io sia la persona disinvolta e sicura di sé che ti stai immaginando? Mah.

Cmq – cambiando discorso - niente mi fa sentire realizzata come interpretare per lo Shōgun le canzoni dei cartoni animati anni ‘80. Venerdì credo di averlo anche un po’ spaventato con una versione di Heidi leggermente punk. Che ne so, mi sento rigenerata mentre saltello a tempo di Memole o batto il piede come David Gnomo, sgranando gli occhi e sfoderando sorrisi sloga mandibola e a lui, in generale, piace. Quando riconosce il brano si unisce al coro ed è una delizia sentirlo cantare, con quella vocina…io, poi, proprio non mi risparmio: faccio tutto, canto, controcanto e coreografie. Mister P. sostiene che così lo traumatizzo e che forse è per questo che non dorme la notte. Io non sono d’accordo: la vita è troppo amara per privarsi di una bella cantata in stile Cristina D’Avena ogni tanto. Sono quelle cose che riconciliano con il mondo, quelle capaci di farti dimenticare pure i campioncini che hai appena ripescato nel sacchetto della profumeria!

Good to know... 

lunedì 24 ottobre 2011

One sunny day the world was waiting for a lover…


So che forse è una situazione retorica, che non c’è niente di particolarmente scioccante nel tipo di esperienza che sto per descrivere e che a molti di voi sembrerà solo un profluvio di insulse banalità. Ma mi domando per quale  cosmico assioma ogni volta che mi imbatto in una qualunque delle conoscenze più stronze e acchittate che mi toccano in sorte da un lavoro centrarolo, io sia conciata nel modo più ridicolo e mortificante dell’intero mese a venire e di quello precedente. E – già che ci siamo - mi chiedo anche perché capiti sempre che sia io a riconoscere per strada questi fenomeni del glamour e a lanciare loro quell’occhiata di troppo che, una volta intercettata, costringe entrambe al pit stop.
La parabola si può riassumere in pochi tratti essenziali. Scena: rientro dalla pausa pranzo. Personaggi ed interpreti. Io: tacco basso, fondotinta e niente altro (già un miracolo se paragonato al resto ma dall’effetto leggermente stralunato), capello sconvolto, infagottata in giacca, cappotto e sciarpa, stivale andante (che stamattina prometteva pioggia), borsone e – orrore – bustina calzedonia con dentro gambaletti di nylon (per mia nonna, giuro!).
Lei, che già scalza mi passa una quindicina di centimetri, indossa uno strepitoso decolté blu con un bel tacco e anche un po’ di plateau, calze pesanti leggermente operate (costose!), vestito corto blu scuro con uno scollo tipo Biancaneve, cappottino coreano in tinta, apertissimo (niente sciarpa, niente scialletto, nemmeno i bottoni!), borsa firmata, compatta, da urlo. Io la guardo, naso insù, per tutti i cinque minuti di conversazione, lei per baciarmi si piega un po’ sulle ginocchia, io (per non mettermi sulle punte. E che diamine!) allungo il collo fino a rischiare la slogatura. Mentre parliamo del nulla cerco di ricordarmi perché abbia poi deciso di non depilarmi le sopracciglia, approfittando del weekend. Lei  - trucco impeccabile, capello sfilzato, parrucchierato che le sta benissimo – mi sorride cordiale.
Io la odio.
Cioè, non semplifichiamo, qui non si tratta di andare a farsi sistemare il taglio, perché la mia zazzera (troppo lunga, troppo para, troppo liscia) se spendessi quei dieci minuti in più per asciugarla come si deve e pettinarla di tanto in tanto, non sarebbe così male. Qui si tratta di coerenza e – come dire - di continuità. Si tratta di non incontrare mai queste mesdames précision il giorno che sei decente, ma di ruzzolargli contro quello in cui sei tanto cozza che non te lo spieghi. Il giorno in cui hai deciso comunque e con coscienza di metterti quelle calze rovinate, quelle che - te lo sei detta chiaramente - “le devo buttare!” ma stasera, perché che fai? Le butti pulite? E quindi, mentre abbassi lo sguardo sul suo sandalo fashion sopra la calza di Woolford, con la coda dell’occhio intravedi i tuoi piedi dentro le ballerine, col dorso cosparso dei pallini che le calze fanno sui talloni perché magari in quell’istante micidiale ti accorgi di averle pure messe al contrario! Insomma, lo schifo.
Qui il nocciolo del discorso è che, per quanto tu ti possa sforzare di essere precisa e curata (senza strafare ma – insomma! - decorosa), arriverà comunque quel giorno nel mese in cui topperai. Tu sì, lei no. E quel giorno lei ti troverà. Quindi mie care tutte, spero che voi apparteniate alla categoria delle acchittone inveterate – perché, in fondo, chissenefrega di venire infamate in un post del kaiseki se poi vi aggirate con la grazia e l’eleganza di una fashion icon, no? – e che non vi offendiate per questo piccolo sfogo. Ma magari, già che ci siete, fatevi un giro su uno di quei siti che dispensano suggerimenti su “come tagliarsi la frangia da sole” o “come si usa il piegaciglia” e lasciate il kaiseki a sproloquiare in santa pace sui vantaggi dello smalto trasparente e della terra al posto del fard: dopotutto, questo è un no-fashion blog!

venerdì 21 ottobre 2011

Half of what I say is meaningless, but I say it just to reach you...


Ci sono momenti nella vita che passano aspettando. L’attesa riempie le giornate, le settimane, senti che nell’aria c’è qualcosa, a volte intensamente. Altre volte la sensazione è un’impronta leggera sulle cose intorno che suggerisce, in qualche modo, l’opportunità di stare fermo, preparandoti al cambiamento. È uno stato complesso, non del tutto negativo ma che in un certo senso spinge a rimandare l’azione, a procrastinare le scelte. Semplicemente aspetti, con la convinzione, confusa e netta al contempo, che qualcosa sia già in movimento per te.
Sono momenti che sembrano allungarsi come spirali di miele in un bicchiere di latte, scivolano sul fondo prima di sciogliersi del tutto lasciando di sé soltanto un sapore. Non so se dolce. Si dimenticano in fretta quando tutto torna a regime, quando gli ingranaggi riprendono a girare producendo il consueto frastuono.
Ultimamente, quando sono troppo pigra per fare qualcosa e mi dico prima o poi  mi sorprendo a pensare che questo poi nel frattempo stia scorrendo. Cioè, non è più come qualche anno fa, quando mi dicevo cose tipo “prima o poi compro dei pigiami decenti, femminili...di classe!” mentre mi infilavo la maxi felpa coi pinguini. Ecco, in quel caso il prima o poi immaginavo significasse quando sarò una donna sofisticata, sopra la trentina, con una carriera…Dunque, i 30 diciamo che sono un vago ricordo, nel frattempo mi sono pure sposata (quindi c’è qualcuno che gioisce della quotidiana opportunità di ammirare i pinguini), sulla carriera stendiamo un velo, eppure ancora non sono riuscita a dotarmi di pigiami decorosi. Lo so, sto trascinando questo post verso l’assurdo: cosa ci vorrà mai a comprare un pigiama? Capiamoci: non è del pigiama che voglio parlare, è dell’idea di me che ho e che, mi sono accorta, tende a risultare sempre più – come dire – indefinitamente prospettica.

Allora, il punto è forse che non c’è un traguardo da superare per poter dire “ok, da qui in poi ci sono”? O forse che – e qui cito - una è tanto più vera quanto più si avvicina all’idea che ha di se stessa e allora se io voglio essere autenticamente me allora devo comprare dei pigiami eleganti? Sto di nuovo confondendo le acque. Quello che un po’ mi rode è il pensiero di non stare utilizzando il tempo opportuno (cioè questo) per fare le cose opportune per questo tempo. È come vivere a salti, tra il passato e il futuro, trascurando il presente.
Oddio, sono matta. Ma le penso solo io queste cose? Non avete mai la sensazione che l’oggi sfugga, risulti meno pregno, meno netto: sfumato tra il ricordo di ieri e l’idea di domani?

Bah, diciamo che oggi il kaiseki ha farneticato. Poco male, però, perché il kaiseki dimentica in fretta queste stravaganti parentesi. Però, una volta tanto, datele retta e ascoltate la traccia che parte dal titolo, 'cause I say it just to reach you!

giovedì 13 ottobre 2011

Dancing queen...


Chi di voi sa che le uova di lompo sono un succedaneo del caviale?

In pochi – spero – io stessa mi sono imbattuta in tale curioso sottotitolo quell’unica volta che comprai al supermercato una scatolina che sembrava in tutto e per tutto caviale ma che costava pochissimo. Quando arrivai a casa scoprii l’arcano: erano uova di lompo. E il lompo deve essere un succedaneo dello storione, visto che le loro uova sono intercambiabili.

Altra questione: il kaiseki ha studiato Economia e Commercio (e se vede! fischi e buuuuu!), bene una delle prime nozioni assimilate nel corso delle illuminanti lezioni di Economia Aziendale fu proprio quella di bene succedaneo che, in poche parole, è un prodotto che si può sostituire ad un altro senza troppi drammi, pur non replicandone in tutto e per tutto le caratteristiche.
Ora, perché questo assurdo cappello? Per introdurre – cari miei – un tema particolarmente scottante: il multiforme – ahimè inespresso –talento del kaiseki.

Perché non ne parli con l’analista? Azzarderà qualcuno.
È ovvio: perché ho un blog e un blog è il luogo virtuale istituzionalmente deputato alle farneticazioni ego-centrate.
E quindi, vi dicevo…

Fin da quando ero piccola ho desiderato cimentarmi in attività che i miei genitori hanno, di volta in volta, elaborato sommariamente, reinterpretato indiscriminatamente e restituitomi sotto forme – come dire – lievemente ripensate.
Vi faccio qualche esempio: “Vorrei suonare il violino”. Per la prima comunione ho ricevuto un pianoforte. “Vorrei fare equitazione”. Sono stata iscritta a ginnastica posturale, pattinaggio, nuoto, karate, tennis, pallavolo, ginnastica artistica (che non mi sarebbe neanche dispiaciuta se – come tutte le altre bambine – avessi avuto il body fucsia della scuola, anziché uno verde mela che mia madre rimediò non so dove. Con sotto fuseaux coordinati: a 10 anni sono cose che ti segnano) ma – per dirla spiccia - de cavalli manco la puzza. “Vorrei fare danza classica”. Silenzio. “Vorrei fare danza classica”. Silenzio rinnovato. “Vorrei far…” “Ah kaise’, datte una regolata!”
Ma io ero nata, secondo me, per diventare una ballerina: avevo tutto, la grazia, la musicalità, la struttura…aò, non c’è stato verso. E questa cosa, in particolare, non mi è mai andata giù.

Ora, qualche giorno fa una mia amica mi ha segnalato l’apertura PROPRIO DIETRO CASA di una scuola di danza (quando uno dice il destino!). Lei me lo ha detto perché è la mamma di una grande amica dello Shōgun e l’ha iscritta ad un corso di baby ballo (o qualcosa di simile). Manco ve lo dico, mi precipito sul sito per prenotare una lezione di prova gatti. Sul sito in questione arrivo alla schermata con i menu a tendina per selezionare età/genere/livello e prenotare la lezione. So che ero lì per il baby funky ma il mouse è andato da solo: Età: 33. Genere: Classica. Livello: Principiante. Email di conferma arrivata – senza una piega! – “Ciao Kaiseki, ti aspettiamo venerdì alle 19.30 per la lezione di prova. Avvisaci se hai problemi di orario, a presto, il Maestro”

Venerdì è domani, secondo voi gliela posso fa’?

martedì 27 settembre 2011

And in the end, the love you take is equal to the love you make...

Shanti, shanti, sha-ah-anti…

L’idea mi ronzava in testa da parecchio, quindi appena rientrata dalle vacanze, ho telefonato. Hanno risposto al settimo squillo con la voce incerta di chi sta lì per fare le pulizie.
“Buonasera, sono il Kaiseki, vorrei prenotare una lezione di prova per il prossimo lunedì per me e Mr P.!”
Attimo di esitazione. “In realtà i corsi riprendono tra due settimane…”
“Ah, mannaggia! Allora mi prenoti due posti per la prima lezione serale che fate…”
“Il 19…?”
“Sì, perfetto, il 19 alle 20.30. Grazie. Due, eh, mi raccomando! Grazie, a presto.”
Click. Ero un po’ seccata perché lo Shōgun era rimasto al mare con i miei per un paio di giorni e già pregustavo una serata zen, con me e Mr P. adagiati in posa plastica su un tappetino di seta arancione, meditando ad occhi chiusi sulle fettuccine thai che avrebbero inevitabilmente seguito l’ora e mezza di yoga. E invece mi toccava rimandare di due settimane vabbè, meglio di niente: ho preso diligentemente l’appunto sull’agenda e ho aspettato che arrivasse il giorno x.

Cosa indossereste voi per una session di yoga in un rinomato centro di meditazione? Canotta di cotone organico e larghi pantaloni di lino, ovviamente. Ora, capita che né io né Mr P. fossimo troppo equipaggiati in fatto di abbigliamento hare krishna, quindi nella circostanza abbiamo dovuto approssimare un po’. In particolare io ho messo una maglia nera e dei ciclisti neri con la scritta aquarapid sulla coscia (oggettivamente poco intonati ad un ambiente meditereccio) e Mr P. – dopo aver rifiutato categoricamente di indossare i pantaloni di un certo pigiama di cotone a righe, secondo me adattissimi – ha optato per l’unico pantalone di tuta che possiede: bianco, diciamo, antico con una righina rossa, e il mitico stemma di Sergio Tacchini ricamato sulla chiappa. I pantaloni del portantino, come li chiamiamo affettuosamente tra di noi. Sopra, intonata come uno scopino del bagno infilato all’occhiello di un tight, la t-shirt giallo canarino, “Salentu: lu sole, lu mare, lu ventu”. Così creativamente assortiti ci siamo presentati alle 20.29 in un appartamento semibuio, pieno di gente scalza dall’aria molto consapevole, appena in tempo per segnare i nostri nomi su una lavagnetta con la mappa dei tappetini distribuiti nella sala.
Disgraziatamente, l’unica volta che io e Mr P. ci siamo trovati a fare esercizi di rilassamento guidato è stato durante una tremenda seduta del corso preparto, con una maestra di bioenergetica che ci incoraggiava a visualizzare la nostra lingua adagiata su una sdraietta in spiaggia, e - sarà stato l’accento dei castelli della maestra in questione, sarà stato il mio ormonico stato emotivo - ho riso talmente tanto che alla fine mi sono uscite le lacrime. Litigai anche con Mr P., accusandolo di avermi istigato con i suoi respiri profondi.
Avete presente la ridarella no? Tutti, nella vita, hanno avuto almeno un attacco di ridarella, ecco, quando faccio qualcosa di creativo e insolito con Mr P. – preferibilmente in una stanza silenziosa con altre persone silenziose - io finisco sempre per essere travolta da incontrollabili e imbarazzanti ondate di riso.

E quindi, memore dell’esperienza pregressa, quando appena entrati, io mi sono trovata faccia a faccia con il pizzetto, la crocchia in testa e i pantaloni di lino arrotolati fin sotto l’inguine di uno degli allievi, Mr P. si è girato a guardare la mia smorfia da contenimento risa dichiarando con una tempestività sorprendente:
“Senti, questa cosa la vuoi fare tu ma se inizi così dimmelo perché ci risparmiamo ‘sta figura e s’annamo a mangià una pizza!” Me l’ha detto brusco per non mettersi a ridere pure lui e io ho annuito contrita.
“Hai visto? Aveva i pantaloni come quelli del pigiama che non ti sei voluto mettere!” Ho detto per distrarmi. Ma non era facile, io lo sapevo e ho iniziato a sentire la tensione. La situazione non è migliorata quando siamo entrati nella sala della meditazione: praticamente al buio, ci saranno state 30 persone su 30 tappetini, già intente a sfiatazzare e a concentrarsi sui chakra. Io stavo proprio davanti al maestro, un ometto pelato e occhialuto con la voce di Sandro Iovino che doppia Rutger Hauer in Blade Runner. Avete presente? Ho visto cose che voi umani…
Ce l’ho messa tutta, veramente: al primo mantra recitato in sanscrito ho avuto un momento di debolezza ma poi, confesso che mi è bastato sfilarmi gli occhiali e non guardare mai nella direzione di Mr P. il quale, onore al merito, l’ha fatto veramente per me. A un certo punto, mentre eravamo impegnati a tenere la posizione Sarvângâsana, il maestro, interrompendo la sua santònica concentrazione, si è alzato e gli è andato vicino dicendogli che se voleva poteva mettere un cuscino sotto le terga.

Che uomo illuminato!

venerdì 16 settembre 2011

(Black)berry fields forever

Ho scelto il blackberry, sto a rosicà.
Precisamente, per l’appunto, rimugino. Ed è un processo regolare e ricorrente. Avete presente quando scegliete il menù di carne sull’aereo e vi trovate a strozzarvi rabbiosamente con uno spezzatino duro come la pietra, cosparso di salsa collosa mentre salta fuori che nel menù vegetariano c’erano – dico per dire - delle crepes agli asparagi, invitanti e delicate? E in fondo voi lo sapevate che non era la scelta adatta, perché tutto di voi vi spinge verso il menù vegetariano ma poi qualcosa (forse legato ad un trauma infantile) agisce subdolamente, all’ultimo momento, per farvi scegliere una pietanza più ordinaria, meno frivola?

Ecco, dopo SECOLI di scheda prepagata, ho finalmente sottoscritto un abbonamento telefonico e, potendo scegliere tra Bb e i-Phone, io ho pavidamente, inavvedutamente optato per il primo. Perché? Mah, perché ho avuto il Bb per anni in ufficio e lo conosco, perché pesa meno dell’i-Phone, perché avevo sentito pareri contrastanti, perché lo schermo pare si sporchi di meno, perché il touch screen mi sta sulle balle e tutta una serie di fastidiose, analoghe corbellerie.
Insomma: non c’ho avuto il còre, come si dice in giapponese.
Adesso, naturalmente, rosico. Perché in realtà l’i-Phone ha un miliardo di applicazioni fichissime, perché sono circondata da persone che lo hanno preso e ci smanettano di continuo, perché quella cosa delle foto coi filtri colorati mi fa talmente invidia che  la scorsa settimana stavo per comprare su internet una Lomo fuxia per 120 euro e grazie al cielo mi sono fermata in tempo. La verità è che a me serviva l’i-Phone, io sono esattamente il tipo di persona che dovrebbe girare con un i-Phone in borsa! E adesso mi ritrovo incatenata per 30 mesi a un blackberry decrepito (e non adatto alle mie esigenze creative) dal quale, peraltro, è sparita pure l’icona degli sms! Me tapina.

Cmq, nel frattempo mi consolo con la lettura di un libretto esilarante: Ask any girl (titolo italiano, decisamente meno appealing, Tutte le ragazze lo sanno). È la storia di questa Meg Wheeler che si trasferisce a New York dalla provincia americana in cerca di un lavoro, un fidanzato e delle opportunità e finisce col vivere una serie di avventure divertenti assieme a spregiudicati bellimbusti della city*. 

Ad ogni modo, non l’ho finito, sono a metà, ma è decisamente il tipo di romanzo che interessa il kaiseki. Sapete, quello in cui la protagonista carina, un po’ (tanto) ingenua, e infila una serie più o meno interminabile di gaffe e leggerezze ma, essendo dotata di un culo fuori dal comune (ah, les finesses de la langue!), finisce sempre per cavarsela? Ecco, queste sono le letture che mi rilassano di più: niente tragedie incombenti, zero protagonisti negativi, tanti dettagli glamour. 

Ok, rileggendolo, prendo atto che questo post è totalmente privo di filo conduttore. In sostanza, oggi non vi ho parlato di niente se non degli stracavoli miei, che possono pure non interessare e lo capisco. Avevo pensato di rimediare spiegandovi nel dettaglio perché fu incauto l’acquisto del vasino potty duo (di cui ad uno dei primissimi post) e riportarvi il lungo scambio di mail con una cortese ma lievemente ottusa impiegata di Imaginarium Spagna, con la quale, in un crescendo di tensione, ho garbatamente finito per mandarmi a stendere* ma non me la sento. 

Oggi è andata così, famosela bastà. Vi lascio con un’anticipazione di 4 parole sul prossimo post: lezione prova, Yoga e Mister P. Agitare bene prima dell'uso.

A buon intenditor....


* Ammetto che lo stile anni 50 del libro sta lievemente influenzando il mio modo di scrivere in questi giorni: leggi spregiudicati bellimbusti, corbellerie ed altre amenità.

venerdì 2 settembre 2011

Rocky Raccoon checked into his room…

I motivi per i quali ritengo che sarebbe molto saggio trasferirci tutti in una fattoria austriaca sono svariati ma ce n’è uno in particolare: l’Austria è piena di trattori. Ora, durante queste vacanze ho scoperto tutto un mondo parallelo, non immaginario, un mondo quotidianamente sotto i nostri occhi che noi semplicemente non percepiamo perché abbiamo certi sensori disattivati. Ebbene, forte della consapevolezza data dalla compagnia di un topino duenne, ho finalmente aperto gli occhi su questa quarta dimensione fatta di cantieri, camion, sirene, volanti della municipale, gatti randagi, ponteggi intorno ai palazzi…avete una vaga idea di quanti aerei ci volino sopra la testa senza che noi ci degniamo di alzare lo sguardo?!
Ebbene, fino a pochi giorni fa eravamo in campagna e sono giunta alla conclusione che in Austria condividano la reverente  idolatria che lo Shōgun nutre per i trattori, questo dal momento che i trattori sono ovunque. Non solamente per strada o nei campi, non è solo una questione di trattori veri: ogni ristorante (che è corredato di mini parco giochi perché i pargoli si sfoghino in allegria) ha almeno un paio di cingolati a pedali. Ecco, è anche capitato che ci facessimo guardare male, perché lo Shōgun ha questa tendenza a fare la posta al veicolo del caso e, una volta presone possesso, a non smuoverne le regali chiappe per almeno un’orina (considerato che, da brava kaiseki-còre-de-mamma, io ho concesso più volte al pupo di mangiare abbarbicato sul trabiccolo). In breve la scena era la seguente: gatto saldamente ancorato al trattore, io in piedi davanti a lui, col piatto in mano a imboccarlo e dietro uno stuolo di ragazzini mitteleuropei incacchiati neri ma siccome i genitori non se li sognano quanto sono lunghi (e infatti hanno una media di 3 pupi a coppia) nessuno si azzardava a dirci niente. 

Educativo, no? In particolare, c’è stato un trattore di legno in un rifugio in quota (un posto pazzesco dove avevano riprodotto in legno una intera fattoria a misura di gnomo) su cui il gatto  è rimasto inchiodato per un’ora e quaranta, e da cui è stato inevitabilmente strappato via per andare a pranzo, in un tripudio di urla disumane, tra il micidiale imbarazzo mio e di Mister P. e la costernazione dei crucchi che bazzicavano l’area.

Cmq, alla fine lo Shōgun è un gatto da viaggio perché tra pranzi fuori, cene fuori, alberghi e ore di macchina (siamo arrivati fino a Monaco di Baviera!) ha raffinato la sua naturale predisposizione alle lunghe trasferte (almeno secondo me ^^). Questo gli ha conferito una poderosa fiducia in se stesso e un’autorevolezza da far tremare i polsi. Tra i suoi più efficaci esercizi di messa al bando della democrazia, uno senz’altro rappresentativo è riassunto dalla frase: “Papà, tu non guidi!”. A quel punto, nel suo immaginario, lui dovrebbe essere sollevato da terra e piazzato al volante dell’auto, al quale si arpiona saldamente, meglio se con le chiavi nel quadro e la radio accesa. Questo stato costituisce l’optimum per lui e – credetemi – farlo scendere è un’impresa emotivamente disturbante.

Ad ogni modo, prima di lasciarvi, vorrei rinfrancarvi sul fatto che, in questo periodo di vacanza ho perfezionato l’arte di riprodurre fedelmente su carta una gamma vastissima di automezzi da cantiere: so fare le ruspe, i rulli, le autobotti, i camion ribaltabili, disegno anche le betoniere ma soprattutto, so fare le gru. Al gatto le gru piacciono tantissimo, crede che si chiamino tutte Rocky e quando all’orizzonte si staglia il profilo slanciato di una di loro lui salta su: “Guarda mamma, una gru! Si chiama Rocky!”.
E io attacco a cantare.

venerdì 15 luglio 2011

Listen, do U want to know a secret?

Incredibile ma vero, il Kaiseki ha prodotto letteratura.
Ehm, sì, più o meno.
Non voglio farla troppo lunga perchè la self promotion, se possibile, è ancora più imbarazzante del self publishing, quindi vi rimando al link delle kaisekifatiche e prometto un post eslicativo (e giustificativo ^_^) nel weekend.
Ciao a tuttiiiiiiiiiiiiiii!

scopri

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mercoledì 15 giugno 2011

I was dreamweaver, but now I'm reborn

Ho avuto una montagna di idee su argomenti da trattare nel blog ma sono stata letteralmente travolta da un turbine di lavoro e faccende da sbrigare, arrivando la sera, così stanca…che l’unico desiderio era quello di corcarmi - come dice Mr P.- per avere un po’ di tregua. Almeno per qualche ora, prima che il sonno disturbato dello Shōgun mi richiamasse alla veglia. Insomma, come dire, visto che si avvicina l’estate non ci stiamo facendo mancare il rush finale!
Questo, oltre che sul mio fisico debilitato dal raffreddore del semestre (nel senso che va avanti da sei mesi) ha avuto effetti disastrosi sul blog che, me ne rendo conto, ho  definitivamente inserito nel filone dei siti da ‘na botta e via/scuffia estiva/rum e pera. Ecco, tutta ‘sta fatica per sembrare brillante e alla fine sono naufragata in uno shottino di blog.
Purtroppo la mia concentrazione vacilla e tutti gli spunti che mi sono venuti nelle ultime settimane, non appuntati e incanalati nel flusso delle mie carenze cerebrali, hanno finito inesorabilmente per sbiadire nei buchi neri della mia memoria a breve termine.
Allora, visto che non vi posso lasciare così, senza uno straccio di spiegazione, in attesa che me ne venga in mente una plausibile, mi butto sull’ovvio.
Per questo, oggi mi concentrerò su qualcosa che volevo spiegare da tanto, anche considerato che quei pochi che mi leggono me l’hanno segnalata più volte come una trovata non del tutto vincente. Almeno dal punto di vista del marketing.
Indovinate? Forse qualcuno sì: sto parlando dei titoli dei post.

Lo so, inserire un titolo in inglese, verboso, spesso oscuro ed inequivocabilmente scollegato dall’argomento trattato dopo è - senza possibilità di appello – quello che chiunque riconoscerebbe come una mossa falsa. Una di quelle – per capirsi - che ti fa perdere 10 metri ancor prima che venga dato il segnale di partenza. Però ha un senso: distorto e ineffabile ma ce l’ha.
In effetti, se qualcuno l’ha notato, si tratta di titoli, incipit o estratti di canzoni. E si tratta di canzoni prevalentemente (anche se non sempre) dei…? Su, su, che è semplice…esatto (tolleranza per la scenetta), proprio dei Beatles!
Ma va?! Mmmm-mmmm!
Sono d’accordo, forse sarebbe stato più semplice indovinarlo negli anni ’70 ma stavolta è andata così: uso sempre titoli o pezzi tratti da canzoni dei Beatles (o ex membri della band).

Se qualcuno avesse la curiosità di ascoltare le canzoni in questione, guadagnerebbe in comprensione del blog, perché la musica citata, almeno nelle intenzioni, scandiva il ritmo dei post che seguivano.
Anzi, per essere precisi, quando ho creato il blog, avrei voluto inserire una base musicale diversa per ogni pubblicazione, in modo da rendere i 5 minuti necessari alla lettura completi…cioè, in grado di restituire il mio stato d’animo in maniera più netta. Poi, diciamocelo, queste sono chicche da smanettone dei computer e, ovviamente, non ci sono riuscita. Però, se a qualcuno andasse, ecco: sappia che sono tutti titoli che consiglio.
E mi confronterò volentieri con chi vorrà ascoltarli, riaprendo le danze.

lunedì 30 maggio 2011

I'm so tired, I haven't slept a wink

E così, sono passate due settimane dall’ultima volta che il Kaiseki ha aggiornato il blog. Cos’è successo? Le solite cose - potrei rispondere - sennonchè nel frattempo c’è stata la festa dello Shogun che si è svolta come un evento grandioso farcito di biscotti artigianali, centinaia di palloncini (ok, magari centinaia no ma una buona sessantina sì, faticosamente gonfiati a bocca dall’amorevole mater Kaiseki), annaffiato da litri di succo di frutta bio, cola bio, fanta bio e latte di cocco (?!) bio per la gioia del Naturasì dietro casa. Quindi, con il sapiente supporto di una biscottara doc che ha sfornato cupkakes degne di un cordon bleu e le amorevoli attenzioni di Kaisekimamma per la scelta di rinfreschi e di petites cadeaux puor les petites invités, si può senz’altro affermare che sè stato un grande evento (per l’appunto).

Nello stesso frattempo, però, mi sono stancata e ho lavorato troppo e dallo scorso venerdì sono senza voce e con una tosse insopportabile (qualcuno accusa l'eccessiva enfasi profusa nel gonfiare i palloncini). La questione della voce, in particolare, ha una duplice interpretazione: da un lato è innegabilmente sensuale, dall’altro decisamente ridicola. Mister P., notoriamente sordo ai sussurri del Kaiseki, ha dovuto improvvisare una cornetta acustica per recepire le dettagliate istruzioni di gestione weekend, elargite nel fine settimana da un Kaiseki che parla in mute.

Sempre in questo frattempo, mi è capitato di cenare in uno di quei ristoranti radical chic che la menano col km zero e la carta di identità della gallina che ha covato l’uovo che hai nel piatto (cosa che, personalmente, mi crea anche qualche senso di colpa nei confronti del mancato pulcino che starei mangiando), salvo poi riversare ampiamente il proprio zelo ecologico nei prezzi delle pietanze e nei ricarichi del vino. Era uno di quei posti in cui, a quanto pare,  tutto l’arredo del ristorante - volendo ma anche no - era in vendita. Questa cosa ce l’ha illustrata il cameriere  accennando, con ampio gesto della mano e senza un filo di imbarazzo, ad un cortile interno arredato tipo un film di Ozpetek con sediacce di ferro arrugginite e spaiate, panche traballanti, specchi ossidati e una tavola ottometrica fulminata (oggetto, quest’ultimo, che il Kaiseki, in un momento di euforia da uscita serale, si sarebbe pure accattata ma mister P. non era d'accordo). 


Per il resto ho lavorato e lavorato, azzerando le mie pause pranzo (e il conseguente shopping forsennato con gran sollievo del mio malandato conto in banca ma profonda angoscia personale). Unico vezzo concesso in queste due settimane è stato uno strepitoso smalto ciliegia matura che, una volta applicato, è durato quasi 4 giorni (con sommo, inspiegabile divertimento da parte dello Shogun) trascorsi i quali sono dovuta letteralmente correre a toglierlo perché poche cose mi stressano come avere le unghie colorate. So’ strana: ma va?!

giovedì 12 maggio 2011

Black is the color of my true love's hair

Ok, ho lasciato passare un’intera settimana. Credo sia un di quei naturali momenti di flessione creativa che seguono la consapevolezza che il tuo ultimo post è stato visualizzato da 20 persone in una settimana.
Mi spiego: ieri, quando sono tornata dall’ufficio, ho trovato sotto casa una macchina in doppia fila che, con un altoparlante, sparava a tutto volume la canzone del coccodrillo (il brano, sciaguratamente noto all’universo-mondo, il cui testo recita “Il coccodrillo come fa? Non c’è nessuno che lo sa!”). Ad un certo punto si interrompeva la musica e partiva la registrazione che – con la voce dell’arrotino – invitava a comprare, alla modica cifra di 3 euro, Nino il coccodrillo che canta la canzone del coccodrillo. Appunto.
Io mi sono incantata a guardare questo disgraziato alla guida dell’auto, con un misto di divertimento e magone. Ovviamente non si è avvicinato nessuno per comprare Nino e, se avessi avuto 3 euro (ma, naturalmente, non li avevo e ho immaginato che lui non accettasse carte di credito) un cocco me lo sarei comprata io. Con buona pace del post sui giocattoli di marca.
Cmq la digressione un po’ deprimente serve per interpretare il mio silenzio settimanale: mi sono sentita come Nino, il coccodrillo snobbato dai bambini, e non ho pubblicato niente.
Poi, però, insomma: un po’ per amor proprio e un po’ per rispetto a quei 20 che – magari per sbaglio – ma il blog se lo leggono sempre, ho deciso di produrre un nuovo esilarante post. Questo.
State ridendo?
No?
Ma va?!

Stamattina mentre prendevo il caffè al bar ho origliato la conversazione tra una coppia accanto a me al bancone. Lei, alta bionda, carina, in tiro. Lui stempiato, elegante, sotto i quaranta. Il tema del dibattito era il colore della pietra su un anello al dito di lei: una tormalina rosa, a mio avviso. Comunque, lei sosteneva che fosse color amaranto, lui la guardava con gli occhi ebeti e l’aria di chi non capisce. Allora lei ha detto che era una specie di color malva. Lui ha iniziato a sudare sulle tempie scoperte e io un po’ l’ho capito. Alla fine lei, impietosita, ha  optato per un “viola melanzana” e lui, che forse una melanzana, in vita sua , l’ha pure mangiata, ha sorriso e ha smesso di sudare.
Poi ho finito il caffè e me ne sono andata. Però, in effetti, questo episodio mi è sembrato emblematico di una diatriba: perché le donne conoscono i colori e gli uomini no?
Ovvero, perché gli uomini per descrivere qualcosa usano i colori primari (sotto la denominazione di giallo, blu e rosso) e con difficoltà coprono il verde e il rosa mentre le donne, quando parlano, citano il bronzo, il pervinca, il kaki, il glicine, il grigio antracite, il carta da zucchero, il terra di Siena, spingendosi fino al lavanda, al denim, all’ocra…
Cioè, mi chiedo, gli uomini non percepiscono certe scale cromatiche o semplicemente non si prendono mai la briga di imparare i nomi dei fiori né sono geneticamente programmati per scovare similitudini accettabili tra un colore ed un elemento naturale che possa aiutare ad individuarlo?
Qual è il colore più strano in cui vi è capitato di imbattervi? Se dico che il mio vestito è color eliotropo, in quanti mi capiscono?! (qui a fianco c'è l'aiutino...)

giovedì 5 maggio 2011

Her Majesty's a pretty nice girl...

Vi è mai capitato di programmare una settimana di ferie con mostruoso anticipo, prenotare un viaggetto in un posto più caldo di dove abitate, stipulare tutte le assicurazioni disponibili e iniziare il conto alla rovescia prodigandovi, giorno dopo giorno, in rosari e avemmarie per propiziare l’agognato evento?
Ebbene, al Kaiseki è successo abbastanza di recente ed è successo anche che, al terzo giorno (il secondo e mezzo, se si considera il tempo impiegato tra viaggio e ritardi) lo Shōgun tirasse fuori dal cilindro la più clamorosa delle otiti con annesso febbrone protratto.
Ma non è questo l’argomento di oggi, no: ecco, in questo passato che sento di poter definire abbastanza recente – cioè, la scorsa settimana – l’ironica sorte ha voluto che, il 29 aprile il Kaiseki, nonostante il sole fuori, la spiaggia bianca e la temperatura mite, si ritrovasse chiusa in una camera d’albergo, incollata davanti al canale televisivo che proiettava il Royal Wedding, commentato in tedesco.

Quindi, gira gira, di cosa voglio parlarvi oggi? Di questo: ma quanto è magra Kate Middleton?!

Non so se anche voi apparteniate a quella categoria di persone che si fissa con argomenti, dettagli, immagini e tutti una serie di elementi che, in condizioni normali, considererebbe irrilevanti se non inopportuni ma, negli specifici frangenti in cui ci si imbatte, non riesce a staccarsene. Ecco, il Kaiseki, a volte, è preda di questo genere di ipnosi morbose.
Mi spiego meglio, o almeno ce provo.
Prima dell’avvento di Sky, vi sarà capitato, qualche volta (magari di mattina, a casa con l’influenza), di passare con il telecomando su un canale privato e incappare in qualche televendita. Che ne so, i coltelli Shōgun (ah ah ah!), l’aspirapolvere Aurora D’Agostino (quella con la tizia che chiamava le telespettatrici: “amica!”), il Pittarello, una specie di spatola per ridipingere praticamente tutte le superfici piane e curve di casa…Insomma, ci siamo capiti. Beh, io ogni volta che mi imbattevo nel cuoco panzone che, parlando in differita, affettava tutto l’affettabile, o nella signora che prima, a scopo dimostrativo,  inondava il pavimento con le peggio schifezze e poi le aspirava con l’innovativo sistema ad acqua (che risucchiava anche le biglie di metallo, casomai aveste dovuto ripulire la scena di un delitto: pallottole e sangue in un colpo solo!) o nella coppia di sposini che dipingeva una stanza di azzurro, dal soffitto ai termosifoni, rimanevo folgorata. E lì a guardare per ore.

Va bene, qual è il punto?
Il punto è che, insomma, ritengo di essere una persona mediamente istruita e non del tutto priva di intelletto. E, d’accordo, forse una televendita anni ‘80 non è la stessa cosa rispetto al matrimonio di William d’Inghilterra con Kate M. ma l’effetto sul Kaiseki è stato simile e ugualmente devastante. Per cui mi sono ritrovata a fissare inebetita la cerimonia, le orde di folla intorno a Buckingham Palace, le facce degli invitati delle prime file (scrutando quelli che capitavano nelle inquadrature alla ricerca di Paul McCartney!) e le sottane dei preti che officiavano la cerimonia, con inspiegabile avidità.
Nonostante la palla di Spiderman (Fabermen, come lo chiama lo Shōgun) che rimbalzava più volte contro la mia testa, nonostante i grugniti annoiati di Mister P., nonostante la cameriera che nel frattempo cambiava gli asciugamani.
E in questo delirio romantico-disneyano (‘sta Kate - dai! - è proprio una cenerentola 2011), tra una lacrima e un gongolamento immedesimante di troppo, il Kaiseki ha formulato le seguenti, pungenti riflessioni, che non so se vi sentite di condividere:
  1. ammazza quanto è magra Kate M
  2. ma che razza di nome è Pippa?!

Cmq, per concludere: casomai a qualcuno piacesse indugiare in travestimenti perversi, sappiate che nella suddetta (anche se non l’ho detta) località di vacanza, spopolava, accessibile a tutte le tasche, una grandiosa riproduzione dell’anello di fidanzamento che W ha donato a K.

El Compromiso Real, 39 euro e 90 centesimi e passa la paura: fateci una pensata!
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